I DANNATI, 2024, DI Roberto Minervini|recensione
- R. De Vecchis
- 22 apr
- Tempo di lettura: 2 min
Monotonia della vita militare, rapporti umani fatti di silenzi e disincanto dall’idea romantica della guerra; sono questi gli elementi che compongono “I dannati”, film diretto da Roberto Minervini, presentato in anteprima durante il festival di Cannes del 2024.

Con un taglio documentaristico, il regista racconta un episodio di fantasia, ambientato nel 1862, durante la Guerra Civile Americana (1861-1865), in cui un manipolo di ricognitori unionisti è incaricato di perlustrare le desolate terre del Montana, Stato americano dove si sono svolte le riprese della pellicola.
Se da un lato il film riesce a trasmettere con efficacia la dimensione umana dei soldati, dall’altro alcune scelte narrative lasciano perplessi. A cominciare dall’ambientazione: uno scontro tra unionisti e confederati nel Montana non risulta storicamente plausibile.

C’era davvero bisogno di ricorrere a un espediente di fantasia per raccontare una vicenda così comune nella storia delle guerre? Considerando inoltre che il regista è italiano e che il film ha ricevuto finanziamenti da parte del Ministero della Cultura e dalle Regioni Piemonte e Friuli, non c’è nessun evento storico bellico di metà Ottocento in Italia dove ambientare il film?

Mettendo da parte la discutibile scelta dei protagonisti di separarsi dopo lo scontro a fuoco, e sorvolando l’assenza inspiegabile di una figura centrale nel mondo militare come quella di un ufficiale al comando, “I dannati” colpisce per l’accuratezza nei dettagli sulla vita in accampamento.
I protagonisti del film sono uomini e ragazzi, tutti diversi da loro, spinti in una guerra, quella di Secessione Americana, da motivazioni ben diverse. Come del resto risulta essere diversa la provenienza di ciascuno di loro. C'è chi si è presentato alle armi per senso del dovere, chi si è fatto volontario per congiungersi con i propri cari o chi per partire all'avventura.

Come rievocatori storici possiamo dire che il film restituisce con realismo la quotidianità dei soldati, fatta di semplici gesti: dalle lunghe marce a piedi, il montaggio del campo e il fuoco per scaldarsi, le varie attività di svago, fino ai turni di guardia e alla manutenzione dell’equipaggiamento.

Con il passare dei giorni e delle settimane i personaggi diventano fratelli, poiché si conoscono e cominciano a parlare di sé e delle loro famiglie, della loro fede e della loro vita prima della guerra e dei loro crescenti dubbi sul conflitto stesso.
Il freddo clima che li circonda è pieno d'insidie, che consumano rapidamente l'entusiasmo dei militari e porta loro a combattere anche con la loro mente, in un sempre più intenso conflitto interiore, finché questo non esplode sul campo di battaglia.

Del film rimane il paradosso: una pellicola che inciampa nella narrazione, provando a essere un moderno “Il deserto dei Tartari”, ma che sorprende per la naturalezza e la precisione dei dettagli, un risultato tutt’altro che scontato anche per noi rievocatori, che di queste cose ne facciamo una passione. Nel complesso un ottimo lungometraggio.

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